La protesta della gente dello spettacolo contro i tagli operati dalla Finanziaria al Fus, il fondo per lo spettacolo, è stata forte, vibrante,e largamente avvertita da milioni di persone specialmente per la rilevanza che alla stessa è stata data dai mass media sempre molto attenti a quelle vicende che possono suscitare l’interesse popolare.
E l’esecutivo ha dovuto piegarsi, rivedere i propri conti e ridurre i previsti tagli (dal 50 al 33 per cento) restituendo un po’ di ossigeno ad un settore già in crisi da tempo, con particolare riferimento alla cinematografia che si distingue, purtroppo, per il provinciale e assai modesto prodotto fornito negli ultimi decenni.
Tutto questo mentre passava nel più assoluto silenzio la tragica situazione economica del sistema museale italiano che ha visto ridursi drasticamente i fondi necessari per la semplice sopravvivenza.
Dal 1996, infatti, gli stanziamenti per il settore sono passati dagli 85 milioni di euro annui ai 36 milioni del 2005 con rilevanti ripercussioni negative per il funzionamento dei musei e per l’attività e l’indagine archeologica che in un Paese come il nostro, dove gli oltre 2500 anni di storia hanno lasciato tracce indelebili spesso ancora occulte, può consentire ancora molte acquisizioni di carattere artistico e culturale.
Tutto questo perché in ambito politico vi è una sottovalutazione generalizzata
dell’utilità del patrimonio artistico-museale del nostro Paese, sottovalutazione
determinata sì dalla necessità ormai cronica di reperire senza andare troppo per il sottile quanto necessita per il funzionamento dello Stato ma soprattutto da quella palese ignoranza e dal decadimento culturale che caratterizza ormai buona parte di una classe politica italiana fatalmente votata all'imbarbarimento totale.
Eppure, lo abbiamo scritto e documentato più volte, i flussi turistici nel nostro Paese sono determinatiquasi esclusivamentedal fatto che vi si trovano il 70 per cento delle opere d’arte esistenti al mondo (oltre 4 milioni di pezzi unici), 3500 musei, più di 100
mila chiese, 20 mila centri storici di rilevante interesse, 2000 siti archeologici,
54 mila castelli e 35 mila dimore storiche. Tutto questo, e non certo la ricerca di
incantevoli paesaggi, che pure ci sono ma che si possono trovare a più buon
mercato e senza gli inconvenienti che il nostro Paese riserva ai visitatori (alti costi
di soggiorno, microcriminalità,accattonaggio,traffico alienante, carenza
di servizi, sporcizia, ecc.) in tanti altri paesi, rende in soldoni il 14 per cento del
Pil.
Il turismo così, grazie all’insostituibile contributo dei beni culturali, è a pieno titolo la prima industria nazionale per fatturato. E qui sta il paradosso.
Questa realtà, finalmente avvertita dall’esecutivo, ha spinto il
Presidente Berlusconi a prendere taluni provvedimenti per tutelare ed incrementare
il flusso turistico nel nostro Paese, oggi sopravanzato nel settore da Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, rivitalizzando l’Enit e restituendogli con lo stanziamento di due milioni di euro (pochi, ne servirebbero almeno 200!) il suo ruolo originario. Si tratta di una lodevole iniziativa ma al tempo stesso contradditoria e quasi inutile se vengono
contestualmente penalizzati i beni culturali che rappresentano in maniera indiscutibile l’attrattiva prima dei flussi turisitici stranieri e nostrani, tant’è che nello scorso anno i soli musei statali hanno registrato ben 32 milioni di visitatori.
E si potrebbe fare molto di più se solo si considera che dei 71 milioni di turisti
recatisi nel
Stando così le cose come è possibile solo ipotizzare di sostenere ed incrementare
il turismo nel nostro paese se non si tiene conto che lo stesso si identifica
e si sostanzia quasi esclusivamente con quanto offrono a piene mani i beni culturali?
Su questi ultimi in Italia si lesina e si taglia senza criterio e contro ogni logica di mercato. Gli stanziamenti per il settore, del resto, sono assai significativi
in merito. Al patrimonio culturale italiano è destinato lo 0,39 per cento del bilancio dello Stato, a quello dei paesi concorrenti - solo per citarne alcuni - ben di più: alla Francia l’1 per cento, alla Germania l’1,35 per cento, al Portogallo lo 0,90 per
cento. In queste condizioni appaiono evidenti in tutta la loro drammaticità le difficili condizioni in cui versano i beni culturali italiani non solo per quella mancata valorizzazione a cui avrebbero pienamente diritto ma, e soprattutto, per l’impossibilità economica di attendere ad una pur minima ma indispensabile manutenzione e ad un’adeguata sorveglianza.
Così sidissolvono i dipinti pompeiani, crollano parti delle mura aureliane, si sbriciolano i muri di contenimento del Palatino, pesanti incognite gravano sulla stabilità di molti monumenti come
a musei e siti archeologici per carenza di personale o per oggettive ragioni di sicurezza.
Di questo stato di cose, che non ci fa certo onore anche perché il dovere primario dei nostri governanti dovrebbe essere almeno quello di preservare nelle migliori condizioni possibili per i posteri quello che tanto generosamente ci ha elargito la storia millenaria del nostro Paese, risente innanzitutto il turismo che non può certo essere rivitalizzato dai modesti aiuti di un esecutivo che, percorrendo una strada tristemente già battuta da precedenti governi, si limita a interventi quasi esclusivamente di facciata e che non affrontano alla radice un problema che si sostanzia poi nella tutela e nella valorizzazione concreta dei beni culturali.
L’imperativo quindi deve essere quello di fare molto di più e presto. Per consentire al nostro Paese di superare la difficile congiuntura in cui si trova bisogna individuare gli interventi prioritari, effettuare intelligenti scelte di politica economica in modo che, accantonati almeno per una volta gli interessi elettorali, sia possibile portare il Paese fuori dal guado e al tempo stesso guardare con qualche certezza al futuro. È indispensabile perciò puntare con decisione proprio sul turismo e quindi sui beni culturali,unica grande industria nazionale attiva per fatturato e garanzia certa per lo sviluppo del Paese.
Ogni altra strada, del resto, non è al momento percorribile. Dunque la nostra classe politica ne prenda finalmente coscienzae agisca di conseguenza.
Federico De Lella
(dal settimanale della CONF.SAL Società - Cultura - Lavoro del 13 gennaio 2006)
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